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Si muore una volta sola: Giovanni Falcone

COSA NOSTRA: LA MAFIA CHE DICHIARÒ GUERRA ALLO STATO

Quella della mafia in Sicilia, o meglio, quella di Cosa Nostra  è una storia antica e complessa, così complessa che per studiarne l’intera genealogia sarebbe necessaria una facoltà di laurea appositamente dedicata.

Secondo lo storico ed accademico John Dickie (autore di diversi saggi sulla storia della mafia), Cosa nostra fu il risultato di quell’insieme di cospirazionismo, violenza rivoluzionaria e società segrete para-massoniche che caratterizzò il Risorgimento nel Regno delle Due Sicilie.

Una storia che risale a prima dell’unità d’Italia dunque e che ancora oggi scrive pagine e pagine delle cronache del nostro Paese ma che ebbe il suo triste e cruento apice a cavallo tra gli anni 60 e gli anni 90.

Tra il 1960 e il 1970 Palermo fu teatro di quella che i giornali riportarono successivamente come “la prima guerra di mafia” che vide scontrarsi le famiglie palermitane contro le famiglie della provincia e di altri capoluoghi.

Gli inizi degli anni 80 invece videro l’ascesa dei Corleonesi, capeggiati da Totò Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Leggio, che, allo scopo di arrivare al vertice dell’organizzazione criminale e di monopolizzare il business del narcotraffico, scatenarono la più sanguinosa faida mafiosa che la Sicilia abbia mai visto.

Come se già di per sé questo non fosse abbastanza, i Corleonesi, attraverso omicidi eccellenti, collusioni e atti terroristici dichiararono guerra allo Stato, una guerra senza esclusione di colpi che vide molti magistrati, membri delle forze dell’ordine, giornalisti e civili scendere in campo al fine di contrastarne la feroce egemonia e facendosi esempio di legalità, coraggio e umanità.

Uno di questi coraggiosi uomini fu senza ombra di dubbio Giovanni Falcone.

 

La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della Mafia non coincida con la fine dell’uomo.

L’ INIZIO DI TUTTO.

Giovanni Falcone arrivò a Palermo nel Luglio 1978 dopo una carriera nella sezione civile del Tribunale di Trapani e dove, inizialmente si occupò di diritto civile.

Ma il suo spiccato genio investigativo, il suo senso di giustizia e il suo immenso amore per il proprio lavoro lo portarono ben presto a prendere una lunga e perigliosa deviazione verso quella che sarebbe diventata l’antimafia.

Uno dei fattori scatenanti che convinse Falcone a intraprendere questo percorso fu l’omicidio del giudice Cesare Terranova nel 1979, dopo una breve riflessione Giovanni Falcone accettò la proposta di Rocco Chinnici di passare all’ Ufficio Istruzione della sezione penale di Palermo a cui prese parte anche Paolo Borsellino e che sotto la guida dello stesso Chinnici divenne ben presto esempio di efficienza giudiziaria.

Nel 1980 l’allora procuratore capo di Palermo Gaetano Costa firmò ben 56 mandati di arresto contro l’imprenditore edile Rosario Spatola accusato di far parte di un traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti per conto delle famiglie mafiose Inzerillo e Gambino, ad occuparsi del caso venne chiamato proprio Falcone.

FOLLOW THE MONEY: IL METODO FALCONE.

Falcone si buttò a capofitto sul caso, studiando con metodologica precisione le carte, creando collegamenti, tracciando fili che fino ad allora erano rimasti invisibili anche ai più bravi magistrati dell’epoca.

Fu proprio indagando sul caso Spatola che il genio investigativo di Falcone si accese.

Egli capì che per indagare sulle associazioni mafiose bisognava seguire i soldi ovvero dare il via ad indagini patrimoniali e bancarie, ricostruendo il percorso del denaro legato al narcotraffico al fine di mapparne gli spostamenti.

Notò che tutta la droga di Palermo veniva venduta negli stati uniti, così cominciò a telefonare ai direttori delle banche Palermitane e della provincia chiedendo loro di mandargli tutte le distinte di cambio valuta dal 1975 in poi.

Così grazie a verifiche bancarie, a perquisizioni, a indagini serrate e soprattutto al suo genio Falcone riuscì a vedere per la prima volta l’ombra di un enorme organizzazione criminale in grado di gestire il narcotraffico a livello mondiale, un’organizzazione che fino ad  allora veniva percepita come fenomeno “locale” legato soprattutto a fenomeni singoli di microcriminalità.

Falcone, grazie al suo metodo arriverà ad indagare e scoprire i collegamenti mafiosi tra Sicilia e USA attraverso l’inchiesta divenuta storicamente nota come “Pizza Connection” e addirittura ad accertare la collusione del banchiere Michele Sindona.

L’ufficio Istruzione acquisterà sempre più prestigio grazie ai successi di Falcone e Borsellino, mentre Chinnici inizierà a teorizzare le basi di quello che sarebbe divenuto il pool antimafia.

Il 6 Agosto del 1980 il procuratore Costa, lo stesso che aveva firmato i mandati dai quali tutto era partito, venne ucciso in un agguato mafioso, da quel momento in poi Falcone girerà sempre sotto scorta.

 

Giovanni Falcone e Rocco Chinnici ai tempi dell'ufficio istruzione

IL POOL E IL MAXI: GLI ANNI D’ORO DELL’ANTIMAFIA.

Come detto in precedenza, grazie all’instancabile lavoro di Chinnici e della sua squadra, l’ufficio Istruzione di Palermo acquistò sempre più valore, furono molti gli arresti e i processi che seguitarono il lavoro di Falcone e Borsellino, questo mise Cosa Nostra in condizione di dover reagire e lo fece nella maniera più chiara e violenta.

Erano le 8 del mattino del 29 Luglio 1983, Rocco Chinnici usciva di casa, ad attenderlo tre agenti della scorta, una Fiat 127 parcheggiata sotto casa ed imbottita con 75 kg di tritolo esplose in quel momento, lasciando a terra i corpi dilaniati di due agenti della scorta, del portiere del palazzo e del giudice Chinnici.

Ciò che rimane di via Pipitone dopo l'attentato al giudice Chinnici.

Divenne chiaro a Falcone che il lavoro dei magistrati aveva colpito a fondo, che l’organizzazione mafiosa era stata ferita, che lui non poteva e non doveva fermarsi, che aveva imboccato la giusta direzione di una strada ancora lunga, ma l’avrebbe percorsa fino in fondo, fino alla fine.

Alla guida dell’ufficio Istruzione succedette Antonino Caponnetto, che concretizzò l’idea di Chinnici nel pool antimafia.

Il pool antimafia era una squadra formata da quattro giudici istruttori ( Falcone, Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe di Lello) con il compito di coordinare esclusivamente le indagini di mafia centralizzando così, tutto il materiale raccolto negli anni in modo da evitare dispersioni e contaminazioni esterne.

Guidati dall’esperienza maturata da Falcone e dal suo metodo la squadra  divise il lavoro in maniera efficace: Falcone e Guarnotta seguivano i flussi di denaro provenienti dal narcotraffico, di Lello si occupava di omicidi e altri reati minori di stampo mafioso e Borsellino si concentrava esclusivamente sui “delitti eccellenti”.   

Un metodo lavorativo, quello messo in atto da Giovanni Falcone, che risulterà vincente.

Come già detto, in quegli anni Palermo era scossa dalla Seconda guerra di mafia perpetrata dai Corleonesi e i loro alleati contro le vecchie famiglie palermitane.

Quella faida inondò la Sicilia di sangue, non c’era scampo per nessuno. Molti parenti, anche alla lontana, dei boss della fazione perdente vennero massacrati, tra cui la quasi totalità della famiglia di Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi.

Falcone si recò in Brasile, paese nel quale Buscetta si era rifugiato, per interrogarlo e intuì subito che in quell’uomo si era aperto uno spiraglio, Buscetta avrebbe potuto collaborare.

Fece richiesta di estradizione e ottenne il trasferimento del boss in Italia. Ancora una volta il giudice ci aveva visto lungo perché all’arrivo in Italia Tommaso Buscetta, ormai provato e rancoroso nei confronti di Cosa Nostra, decise subito di collaborare ad una condizione: avrebbe parlato solo col giudice Giovanni Falcone.

Le dichiarazioni che Buscetta rilasciò furono la conferma della genialità intuitiva di Falcone che, insieme al collega Borsellino, istruì il famoso Maxiprocesso (un documento di ben 8.000 pagine) il tutto rinchiusi nella foresteria del carcere dell’ Asinara per motivi di sicurezza, dato che erano state intercettate telefonate di minaccia nei confronti dei due  giudici.

Il maxi processo iniziò il 10 Febbraio 1986 e si concluse,  in primo grado,  16 Dicembre 1987 con 360 condanne a 2665 anni di carcere totali più un ammontare di undici miliardi e mezzo di lire di multe.

Non uno schiaffo, ma un pugno da ko ben assestato in faccia alla mafia. 

Una grande vittoria per il pool, un’impresa eccezionale per Falcone che aveva passato tutti quegli anni sotto scorta, sotto continue minacce, sacrificando il tempo per i suoi affetti, dedicandosi coraggiosamente anima e corpo ad una cosa sola, la legalità.

Ma la felicità di quei giorni di gloria era destinata a finire presto.

Tommaso Buscetta pronto a testimoniare al Maxiprocesso

UN UOMO SOLO: LA STAGIONE DEI VELENI.

Circa un anno dopo le vicende del Maxiprocesso, Antonino Caponnetto si apprestava a lasciare il pool antimafia per anzianità di servizio, per la sua sostituzione vennero candidati il favoritissimo Giovanni Falcone e il magistrato Antonino Meli.

Dopo una lunga e discussa votazione il Consiglio Superiore della Magistratura nominò inaspettatamente (almeno in apparenza) Antonino Meli.

La suddetta nomina innescò aspre polemiche, e inoltre rese Falcone un bersaglio molto più facile per la Mafia poiché era stato lanciato il chiaro segnale che il magistrato non era così stimato come si credeva.

Da quel momento in poi Falcone dovette fronteggiare un numero sempre crescente di difficoltà e di ostacoli alla sua attività investigativa e alla sua persona.

Meli iniziò un lavoro “in retromarcia” tornando ad assegnare le indagini riguardanti la mafia in maniera territoriale, decentralizzando, in sostanza, tutto il lavoro svolto dai magistrati e segnando così il processo di smantellamento del pool, cosa che verrà successivamente denunciata da Borsellino in una famosa intervista.

Per Falcone inizia un vero e proprio calvario, si vede sottrarre incarichi importanti, deve sopportare costantemente le ostilità dei colleghi, soprattutto di Meli che addirittura denunciò una sorta di incapacità da parte di Falcone e dei membri del pool accusati di “aver abbassato la guardia”.

La sensazione era quella che alcuni magistrati agissero per invidia nei confronti di Falcone e dei suoi successi nella lotta alla mafia; perché, nonostante tutto, lui andava avanti. La sua passione, la sua fede nella legalità e soprattutto la sua umanità lo portarono a conseguire altri successi nazionali ed internazionali nel contrasto dell’organizzazione mafiosa.

Ormai in aperto contrasto con Falcone, Meli sciolse definitivamente il Pool Antimafia così da quel giorno Falcone fu un uomo solo, e Cosa Nostra non si fece attendere.

Il 21 giugno 1989 Falcone, durante una delle rare pause che si concedeva, scampò ad un attentato dinamitardo messo in atto nella sua casa al mare all’Addaura.

Un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo era stato posto sugli scogli sotto la casa del Giudice con l’intento di farlo esplodere appena Falcone fosse sceso per farsi un bagno.

Fortunatamente non ci fu nessuna esplosione, molto probabilmente dovuto al fatto che il pulsante che avrebbe dovuto azionare il tutto si inceppò oppure, come alcuni teorizzarono, quello fu solo un avvertimento. 

Ma Falcone conosceva bene Cosa Nostra e sapeva che quello era tutt’altro che un avvertimento. In una famosa intervista concessa al giornalista Saverio Lodato, Falcone confessò che dietro all’accaduto aveva percepito quelle che lui definì “menti raffinatissime” teorizzando per la prima volta la collusione tra mafia e pezzi deviati dello Stato.

A condire il tutto, all’interno del Palazzo di Giustizia iniziarono a circolare lettere anonime (alcune su carta intestata Interpol) che diffamavano Giovanni Falcone e alcuni dei suoi collaboratori, accusandoli addirittura di aver pilotato il ritorno in Sicilia di un pentito con lo scopo di scatenare una guerra contro i Corleonesi latitanti.

L’assurdo evento divenne noto come “la vicenda del Corvo”.

Giovanni Falcone era vittima di quella che oggi viene definita DELEGITTIMAZIONE, ovvero una macchina del fango costruita ad arte al fine di togliere ogni credibilità alla vittima designata.

Durante un’intervista ad una trasmissione televisiva ci fu chi disse che la bomba all’Addaura se l’era messa da solo, perché voleva riaccendere i riflettori sopra di lui, venne accusato di protagonismo, una cittadina palermitana scrisse addirittura una lettera ad un quotidiano chiedendo se si poteva revocare la scorta in quanto le sirene delle auto disturbavano ogni volta che il giudice si spostava.

Veniva attaccato da chiunque: giornalisti, liberi cittadini, colleghi e politici.

Famosa la sua partecipazione alla trasmissione di Maurizio Costanzo in cui venne attaccato verbalmente da Alfredo Galasso e Salvatore Cuffaro.

Ma questo non fermò né il giudice né l’uomo che era Giovanni Falcone:

si concentrò sempre più sui delitti eccellenti, soprattutto a fronte della sua profetica intuizione in cui vedeva Mafia e parte dello Stato stringersi la mano.

L’allora vicepresidente del Consiglio, Claudio Martelli, lo propose alla direzione della sezione Affari Penali del ministero a Roma durante il quale redasse un rapporto di 900 pagine in cui dichiarava ci fosse una specie di triumvirato mafia-politica-imprenditoria a formare un comitato d’affari per l’accaparramento dei fondi e degli appalti pubblici.

Agli occhi di Falcone era ormai chiaro che alcuni politici e alcuni alti rappresentanti dello Stato erano soci in affari di Cosa Nostra e dunque le famose “menti raffinatissime” che lui aveva intravisto.

A fronte delle sue deduzioni Falcone propose l’istituzione della Procura Nazionale Antimafia ovvero la cosiddetta “Superprocura”, cioè un’istituzione dotata di un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose a livello Nazionale col compito di coordinare tutte le attività di indagine e di contrasto da un unico caposaldo, tornando così a quella metodologia che contraddistinse il pool.

Inutile dire che la questione sollevò polemiche da parte della magistratura e della Politica che intanto iniziava a tremare essendosi trovata in campo aperto.

Ma per una volta in questo periodo velenoso per Falcone, l’impegno, la perseveranza, il rimanere umano di fronte a chi cercava di abbatterlo premiarono l’uomo che con tanto sacrificio aveva dedicato la sua vita alla legalità.

L’istituzione della superprocura venne approvata il 20 novembre 1991.

Ora Cosa Nostra, già gravemente ferita dal Maxiprocesso, si trovava di fronte un gigante pronto a dar battaglia fino all’ultimo, stavolta era una partita a due che la Mafia non poteva concedersi il lusso di perdere.

Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi.

IDI DI MAGGIO

Cosa Nostra è braccata, sanguinante, impaurita… ma non per questo meno feroce.

Falcone si è spinto troppo oltre, Totò Riina, dall’alto della sua latitanza, emana la sua sentenza: “Giovanni Falcone non può fare lo sbirro più sbirro di tutti. Giovanni Falcone deve morire”.

 

A maggio, in Sicilia, è già tempo di mare, il sole abbraccia la spiaggia di Mondello a Palermo, la sabbia è chiara e morbida, il mare è tranquillo e il panorama è fantastico.

Di sabato è molto affollato, come al solito, con le risate dei bambini che si mischiano alle canzoni degli ambulanti, la gente nei bar consuma granite e bevande ghiacciate, si gioca a biliardino e a beach volley, tutto nella norma, va tutto bene.

Ad un tratto, verso le sei di sera, l’allegro vociare viene squarciato da un boato, si sente come una scossa di terremoto poi tutto tace, nemmeno gli ambulanti cantano più…

Giovanni Falcone era atterrato all’aeroporto di Punta Raisi alle 16:45 di sabato 23 maggio 1992. Appena sceso dall’aereo partito da Roma era salito sulla Lancia Thema bianca, voleva guidare lui quel giorno, a bordo assieme a lui la moglie Francesca Morvillo.

Partono in direzione Palermo, lui sta al centro, davanti e dietro altre due Lancia Thema con a bordo la scorta.

Dietro di loro, il mafioso Gioacchino La Barbera li segue di nascosto in contatto telefonico con gli attentatori, davanti a loro li attende il destino.

Sono le 17:58, Falcone e la scorta stanno passando all’altezza dello svincolo di Capaci, La Barbera chiude il telefono, da un casolare posto su un’altura a lato della strada, Giovanni Brusca appoggia il dito sul telecomando e fa esplodere 1000 kg di tritolo che erano stati precedentemente posizionati sotto l’autostrada: delle Lancia Thema resterà ben poco.

Oltre a Giovanni Falcone, nella strage di Capaci moriranno la moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato, e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo.

I funerali di Falcone saranno caratterizzati da molte manifestazioni di affetto e altrettante ingiurie nei confronti dello Stato e della Politica, a testimonianza che quell’uomo così fedele alla legge, caparbio, così coraggioso nel rimanere umano anche di fronte alle peggiori diffamazioni, umano nei tradimenti subiti, umano nel sacrificio compiuto, quell’uomo lasciato solo nella sua battaglia, quell’uomo, alla fine, ha vinto.

I resti dell'autostrada , all'altezza di capaci dopo l'esplosione costata la vita al giudice Falcone, alla moglie e agli agenti della scorta
i funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo

Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola