Quando si tratta di definire cosa voglia dire #rimanereumani è difficile trovare un esempio più calzante di Armin T. Wegner. Dalla sua nascita a Wuppertal (Germania) il 16 ottobre 1886 tutta la sua vita è stata improntata sulla ricerca della giustizia: la laurea in giurisprudenza, l’arruolamento come infermiere volontario in Polonia nell’inverno del 1914, il conferimento della croce di ferro per meriti sul campo per il soccorso prestato ai feriti, l’opera di testimonianza ed i tentativi di soccorso operati nei confronti del popolo armeno vessato e massacrato dagli alleati turchi ottomani nel 1915, gli scritti e le lettere di denuncia ai potenti per le atrocità osservate in Anatolia, le sofferenze subite a causa della sua integrità ed in ultimo l’esilio e morte in Italia nel 1978.
Se c’è qualcuno che davvero merita il titolo di eroe è senz’altro lui.
Senza le sue fotografie e documenti raccolti che testimoniano inconfutabilmente gli orrori del genocidio armeno, l’opera di negazionismo tutt’oggi propugnata da alcune nazioni sarebbe Storia, e le vite di quello sfortunato popolo sarebbero scomparse dalla Memoria insieme con le loro ossa, sepolte a milioni sotto la sabbia del deserto siriano. Armin era un sottotenente del servizio sanitario tedesco di 29 anni che amava la propria patria, addestrato a soccorrere ed assistere le persone, e aveva una gran voglia di viaggiare e vedere il mondo. Quando venne assegnato in Medio Oriente, al fianco dei neo-alleati turchi ottomani nella mitica Costantinopoli, era soddisfatto, anche perchè all’epoca non era da tutti viaggiare così lontano. Sotto al sole cocente che splende sui minareti ed i campanili della città, oltre gli odori delle spezie e il vociare dei mercanti, si sentono altre voci: sussurri terribili che parlano di massacri ai danni della popolazione armena. La conferma di queste voci non tarda ad arrivare, essendo egli assegnato al seguito di un ufficiale con il quale deve attraversare l’Asia minore, passando quindi per Baghdad, Babilonia, Der es Zor, Aleppo; lo stesso percorso che il popolo armeno è costretto ad affrontare a piedi attraverso il deserto, strappato alle proprie case all’improvviso, senza cibo, senza acqua e senza speranza. Un percorso infernale narrato passo per passo negli scritti di Armin, riportato in ogni suo crudele ed orrido particolare. Di fronte all’indicibile sofferenza della lunga colonna di disperati che scorre dai finestrini come un paesaggio tristissimo, il cuore di quell’uomo ha già scelto da che parte stare, pur lottando contro il suo amor patrio e l’impotenza di aiutare direttamente quelle persone.
Una presa di posizione a mio parere condivisibile considerando l’evento di cui è stato testimone:
il primo genocidio del XX secolo e, in un certo senso, le prove generali di quello che vent’anni dopo sarebbe stato l’Olocausto. Come racconta lui stesso “[…] tutte le strade sono fiancheggiate da deportati armeni affamati e sofferenti. Le nostre anime torturate procedono lungo una recinzione vivente singhiozzante ed urlante, dal quale si estendono migliaia di mani imploranti.” Lungo il tragitto, che compirà sia all’andata che al ritorno, si ferma anche nei campi profughi (Tibni, Maden, Rakka, Abu Herera, Meskenè, Aleppo) dove si trova assediato da fame, morte, malattia e disperazione: uomini, donne, bambini e anziani, a nessuno vengono risparmiate torture atroci e violenze inaudite; inoltre non era possibile prestare alcun tipo di aiuto a quella popolazione sofferente e questo, ad un sottoufficiale dei servizi sanitari, dev’essere sembrato un ordine assurdo da seguire.
«Negli ultimi tempi ho scattato molte fotografie. Mi hanno raccontato che Djemal Pascià, il carnefice siriano, ha proibito, pena la morte, di scattare fotografie nei campi profughi. Io conservo le immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura. Nei campi di Meskenè e di Aleppo ho raccolto molte lettere di supplica che tengo nascoste nel mio zaino in attesa di consegnarle all’ambasciata americana a Costantinopoli. Io so di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti, mi riempie di gioia più di qualsiasi altra cosa io abbia fatto». Attraverso l’aiuto di consolati ed ambasciate di altri paesi fece giungere parte del materiale in Germania e negli Stati Uniti; distinguendosi, in questo, dagli altri viaggiatori che percorrevano quelle strade e che distoglievano gli occhi terrorizzati da queste colonne di deportati sottoposti a diaboliche atrocità per poi trovare, nelle locande dove alloggiavano, neonati nel letame dei cortili e vie ricoperte di mani mozzate di ragazzi che avevano osato alzarle implorando pietà dai loro aguzzini.
La sua opera non passa inosservata a lungo e nel 1916 una lettera indirizzata a sua madre viene intercettata e Wegner viene arrestato, degradato a recluta, privato delle licenze e relegato alle baracche in cui sono ricoverati gli ammalati di colera. Lui invece si ammala di tifo, e solo grazie all’intercessione di sua madre riesce a tornare in Germania, nascondendo i negativi delle foto nella sua cintura. Ma la sua lotta non finisce con il rientro in patria, continua ad aiutare come può e cioè scrivendo: trova impiego nel Ministero degli Affari Esteri e riesce ad entrare in possesso di documenti e testimonianze secretate, per poi scrivere diversi libri e poemi partendo da questi documenti e dai suoi diari, arrivando addirittura a scrivere una lettera aperta al presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson, in cui descrive con dovizia di particolari le atrocità commesse dai turchi ottomani e dal suo stesso popolo:
“genti la cui unica colpa era quella di essere indifesi, di parlare un’altra lingua e di esser nati figli di un’altra fede religiosa. Io non accuso l’Islam; lo spirito di ogni grande religione è nobile. Io non accuso il popolo semplice di questo paese il cui animo è profondamente onesto; ma io credo che la casta di dominatori che lo guida non sarà mai capace nel corso della storia di renderlo felice perchè essa ha distrutto totalmente la nostra fiducia nelle loro capacità di civilizzazione e ha tolto alla Turchia per sempre il diritto all’autogoverno.”
Nelle sue denunce evita le generalizzazioni, mostrando in questo grande saggezza, testimoniando anche casi di dissenso e disobbedienza civile da parte di funzionari turchi di fronte agli ordini dello sterminio.
Un coraggio ed un’umanità senza pari che però si scontrano con l’indifferenza e con gli intrighi politici, perchè certe verità sono troppo scomode, troppo brutte e troppo impegnative per essere ascoltate. Questa formidabile abnegazione la dimostrerà più e più volte, come in Unione Sovietica nel 1927, e ancora in Germania nel 1933 quando, subito dopo l’ascesa al potere di Hitler ed in seguito al crescente sentimento antisemita che dilagava nel paese, Armin Wegner, prevedendo una ripetizione dello sterminio armeno, scrive direttamente al furher un appello affinchè i provvedimenti antiebraici ed antiumani cessino, precisando che “se la Germania è diventata grande nel mondo a ciò hanno contribuito anche gli ebrei”, ricordando che dodicimila ebrei tedeschi hanno combattuto e sono caduti per il loro paese durante la prima guerra mondiale. Per tutta risposta, Adolf sguinzaglia la Gestapo che arresta, tortura e imprigiona Wegner in diversi luoghi di detenzione.
Quante volte può spezzarsi il cuore di un uomo? Tradito dalla sua patria, ferito nell’anima e schiacciato dall’impotenza, nel 1936 si autoesilia in Italia, dove rimarrà fino alla morte.
Bisognerà aspettare il 1968 perchè la sua crociata venga riconosciuta: viene insignito del titolo di “Giusto tra le Nazioni” sia dallo Yad Vashem di Gerusalemme, per i suoi sforzi a favore del popolo ebraico, sia dall’Ordine di San Gregorio a Yerevan per il suo contributo alla causa armena. Contemplare la statura morale di questa persona, l’unica il cui nome sta scritto sia sul Muro dell’Onore a Gerusalemme sia sul Muro della Memoria a Yerevan, non può che farci riflettere e ricordarci che #rimanereumani era, è e sempre sarà possibile, se siamo disposti a pagarne il costo. Rimanere fedeli alla propria umanità ed al proprio senso di giustizia a prescindere da quanto siano terribili le conseguenze. Il prezzo di percorrere questa strada lo possiamo leggere sulla lapide di Armin Wegner a Roma, dove in latino sta inciso:
“Ho amato la giustizia ed odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio”.